Ana e le sue amiche
Accade che una madre di una figlia adolescente che continuava a perdere peso, definita da alcune testate giornalistiche “mamma coraggio” , indaga sui gruppi virtuali frequentati dalla figlia e scopre un gruppo pro – Ana (ce ne sono molteplici nel web).
Denuncia alla Polizia di Ivrea la blogger per istigazione all’anoressia e lesioni gravissime (come sottolinea huffingtonpost)
Ma di cosa si tratta e chi è ANA?
Ana è la dea che “prendendoti per mano ti porta sulla vetta dell’assoluta perfezione ed abbracciandoti non sentirà il calore del corpo ma la durezza delle ossa”, “come una divinità, per molte adolescenti rappresenta una forza che le aiuta a digiunare e a superare i momenti più complicati” (come scrive La Repubblica di Torino).
Le diete pro – Ana sono diete assurde, senza alcun fondamento scientifico, che invitano a digiunare progressivamente, a bere molta acqua o thè verde senza zucchero e consumare 100, 200 massimo 500 calorie al giorno per intenderci un frutto o un piatto di pasta, e se senti i crampi della fame puoi prendere a pugni il tuo stomaco oppure accovacciarti in un angolo fino a che non passano.
Quindi una voce unisona che condanna “le cattive amicizie”, i blog di questo tipo, il gruppo dei pari quando nocivo e distruttivo (nulla da eccepire!).
Io mi chiedo, invece, perché una madre di una quattordicenne ha necessità di indagare su una blogger e non ha una relazione sufficientemente significativa con la figlia per poter ragionare su ciò che sta facendo? Come mai una sconosciuta o conosciuta blogger di 19 anni ha più poter di una madre? Ed il padre dov’era?
Mi chiedo cosa hanno fatto i compagni di scuola o cosa hanno pensato gli insegnanti? Questa ragazzina era già così invisibile? Tanto quanto il suo corpo di 30 kg!
Quale adulto possedeva le sue confidenze? Perché ad un certo punto (adolescenza o pre – adolescenza) un figlio/a, improvvisamente, ci appare tanto estraneo?
Quando si parla delle “mamma coraggio” a me viene in mente l’esperienza comunitaria delle madri che denunciavano i figli per estorsione per farli andare in carcere e poi sperare in una commutazione di pena in misura alternativa (ovvero programma terapeutico e di recupero in comuntà). Ho incontrato per anni la disperazione di queste madri e non ne sottovaluto l’intensità ed il vissuto; è terribile pensare di non avere più nessun potere ed affidarsi alle autorità giudiziarie affinché svolgano la funzione genitoriale.
Sposare all’unisono il punto di vista che “il male” è sempre fuori di noi o fuori la famiglia e che la soluzione è la condanna di un altro o di qualcos’altro è deresponsabilizzante, ma anche depotenziante e spesso fallimentare. Allora fa accadere anche cosa terribile tipo caccia alle streghe oppure all’immigrato.
Elena. Bella e giovane donna, mi racconta che l’anoressia è, oggi, come una civetta sulla sua spalla, si fa spesso sentire ed è in agguato nei suoi momenti di stress o di solitudine. Aggiunge che lei è una nomade che non si porta dietro le relazioni, anzi sa già di non poter instaurare relazioni durature e significative perché tanto si deve spostare. Si porta, però, dietro la “civetta”, oggi rapace addomesticato, quasi un pappagallo.
Allora la “base sicura” di Elena è la sua malattia?
La figura di un adulto di riferimento è essenziale, perché col necessario sostegno, garantisce sicurezza fisica e psichica. Questo sostegno costituisce la “base sicura” dalla quale il bambino può partire per la sua esplorazione del mondo esterno, egli sa che può tornarvi in qualunque momento, perché sarà sempre accolto amorevolmente, consolato se triste, rassicurato se spaventato. Il ruolo del genitore è proprio quello di essere sempre pronto ad accoglierlo, nel momento in cui c’è bisogno di lui, senza però essere eccessivamente presente quando non necessario.
Oggi con Elena stiamo provando a rinforzare la sua base sicura ed evidenziare, dando importanza, a tutte le sue relazioni significative e gli adulti di riferimento. Ma Elena non ha più una malattia solo una storia da rivedere.
“Il comportamento di attaccamento è quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che mantiene una prossimità nei confronti di un’altra, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure” (Bowlby, 1988).
Ritornando all’incipit di questo articolo, Io ho la convinzione sempre più fortificata dalla mia esperienza clinica che gli interventi sugli adolescenti non si possono fare senza l’aiuto dei genitori e senza rafforzare il loro ruolo e le loro competenze. Se prescindiamo da questo tutti gli “altri” adulti hanno buone probabilità di essere perdenti.
Elisa Pappacena
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