Disoccupato cronico: che fare?
L’associazione COSIRE’ ha inaugurato un servizio di sostegno psicologico per persone senza lavoro. In una delle prime richieste ricevute la persona si definiva ‘disoccupato cronico‘, i termini utilizzati mi hanno dato da pensare.
Una situazione cronica è una situazione che perdura nel tempo e per la quale non si è trovata una soluzione, nonostante gli sforzi fatti per modificarla.
Cosa c’è dietro alla definizione di se come ‘disoccupato cronico‘ allora?
I vissuti e le percezioni di se stessi e degli altri. La cronicità in un’area importante per la personalità – ed il lavoro lo è – non può che avere una serie di ripercussioni anche su le altre aree funzionali. Se è vero che è possibile compensare un’area non funzionale investendo maggiori energie nelle altre, è pur vero che tale situazione deve essere temporanea e se invece si porta avanti nel tempo diventando cronica, allora si atrofizzerà.
Ulteriore spunto di riflessione è connesso con l’evidenza che la mancanza di lavoro non è una scelta personale, questo comporta un ulteriore carico in termini di insoddisfazione e ansia. Nel caso di un evento traumatico, in genere, la cronicità porta ad un abbassamento delle difese immunitarie e, spesso, a soffrire maggiormente di disturbi psicosomatici.
La perdita del lavoro è a tutti gli effetti un evento traumatico e quindi anche in questo caso potremo incorrere nell’aumento di quei disturbi: quindi oltre a risentire a livello dell’area di realizzazione personale potremmo risentire in termini di salute generale.
Ciò che emerge con forza è la difficoltà di condividere questo tipo di esperienza ed il proprio vissuto di disoccupato cronico con gli altri.
Perché è così faticoso parlare della perdita del lavoro?
Da un lato abbiamo una cultura che viene dall’alto, pensiamo al governo Berlusconi che è stato campione nella negazione e quindi dell’allontanamento da se dei fatti dolorosi, forse perché il governo – fatto immagine e somiglianza del suo leader – non prevedeva e forse disprezzava quelli che qualcuno ha definito degli ‘sfigati’ ed anche l’attuale governo, pur con modi e termini più garbati, non mi sembra sia particolarmente distante da quella posizione.
Questa continua negazione (o spostamento dell’attenzione) è arrivata a permeare la cultura e la società spingendo verso una maggiore individualità con conseguente depauperamento del tessuto sociale.
In ambito psicologico sono stati fatti degli esperimenti sull’inibizione sociale, i cui presupposti e le cui considerazioni potremmo allargare al nostro campo, si è studiato ciò che è esprimibile e ciò che invece non lo è (quindi inibito). Ad esempio la conquista amorosa con annessi tradimenti è accettabile e regolamentata (grazie Maria de Filippi), ma lo stato di sofferenza è impudico e da non mostrare agli altri.
Ascoltare chi sta male, soprattutto se il proprio vissuto è quello di essere un disoccupato cronico con tutti i vissuti dolorosi correlati, evoca la paura e il timore di ritrovarsi in quella stessa situazione.
Ma qual è il vissuto di chi invece tenta di parlare di se e del proprio vissuto di disoccupazione?
Quando si compie il difficile passo di aprirsi, spesso si percepiscono da parte di chi ascolta dei segnali di allarme, anche perché chi ascolta non è preparato a farlo e magari più o meno cortesemente cambia discorso – fa una telefonata, si distrae guardandosi intorno o giochicchiando con una forchetta o un coltello se a tavola, attenti che non lo usi per farvi tacere in modo rapido e indolore… per lui-.
Il risultato è un crescente stato di malessere che risulta essere inesprimibile e inaccettabile. L’inesprimibilità, associata anche ai sensi di colpa per non sentirsi all’altezza ed adeguati, porta inevitabilmente ad un’aumento dello stato di malessere, che a volte raggiunge livelli esasperanti di angoscia . Un’angoscia che è pronta ad esplodere e a volte lo fa con atti dimostrativi estremi – come nel caso balzato agli onori della cronaca di Latina in questi giorni – si esprime attraverso degli atti (furti, tentativi di suicidio) ciò che non si riesce più a dire a parole.
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Cosa accade quando lo stato di disoccupato cronico spinge a passare all’atto?
In rari casi si riuscirà a far capire quanto si sta male, ma il rischio è che anche quel gesto sia scippato del suo vero valore e significato e venga etichettato come ‘gesto folle‘ , con il risultato da una parte di tranquillizzare tutti gli altri e dall’altra di dover ricorrere ad un gesto ancora più eclatante per farsi ascoltare e al limite anche capire.
Il passo successivo (come nel caso presentato nell’articolo) è il ricovero in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) nel caso di Latina quindi presso l’Ospedale Santa Maria Goretti, dove probabilmente (e come giustamente dovrebbe accadere nelle situazioni di ideazione suicidaria, o tentativi di suicidio) alla persona saranno stati somministrati psicofarmaci. A seguito del ricovero gli esiti possibili possono essere due a fronte della carenza di altri tipi di intervento, sociali o psicologici: il disoccupato cronico continuerà a prendere psicofarmaci a vita per mettere a tacere l’angoscia oppure si presenterà nel tempo un rifluire di tutta quell’angoscia con probabile reiterazione dell’atto.
La lezione sembrerebbe questa: se stai male non puoi esprimerlo, se stai molto male ancora meno, se stai malissimo devi farlo in silenzio!
Il nostro progetto vuole invece mandare un altro messaggio:
se stai male, non arrivare a stare malissimo, ma prova a ristabilire un buon livello di esistenza e riscoprire ciò che sai fare, le tue competenze, ciò che sei e che ti rende unico e provaci ancora!
Gianpaolo Bocci
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